Finalmente: Sarajevo.
Dopo 2 anni di appuntamenti mancati, sabato 29/12 siamo partiti alla volta della Bosnia.
Mi piace l’idea di dire: Vado in Bosnia.
Mi piace un mondo senza frontiere: odio le dogane e quello sfogliare il mio passaporto, che mi sa di violazione.
Ci siamo incontrati con Diego a Trieste, bella nonostante il freddo; abbiamo cenato al RomaQuattro, un bar pieno di gente, in cui servono un’ottima tartare, e camminato qua e là.
La piazza blu era un gioco per bambini, con le immagini di fiocchi di neve ingigantite dai proiettori che roteavano e si allontanavano, comparendo poi sulle facciate dei palazzi.
Scherzando ci dicevamo: che bello un ufficio qui.
Dopo cena: direzione Lubiana. Abbiamo prenotato su booking mentre già drigevamo verso Trieste (!) il Vander Urbani Resort, hotel di design in una viuzza vicinissima al lungo fiume.
La città era viva, brulicante di ragazzi, nonostante fosse passata la mezzanotte. Indimenticabili le illuminazioni di Natale; la collina del castello era cosparsa di luci, che sembravano lucciole giganti, nella piazza c’erano stelle cadenti, per le strade e lungo il fiume, giovani con in mano bicchieri di birra e vin broulè, radunati intorno ai baracchini di legno.
Al Cutty Sark Pub abbiamo conosciuto Romeo, che mi è piaciuto molto; ci ha parlato di Sarajevo e raccontato un po’ di sè e di Lubiana.
Il giorno dopo: Sarajevo. Tante ore di viaggio attraverso il paesaggio desolato della Bosnia Herzegovina. Tutto parla di abbandono, di una ferita ancora non chiusa: le costruzioni abbandonate, l’atmosfera triste.
Siamo arrivati verso sera, spaventati dalla nebbia. La prima immagine, nei viali che portavano verso il centro, è quella un cane randagio, che non sa da che parte andare.
Persino il tom-tom si è perduto: e un taxista gentile ci ha indicato la strada per il City Boutique Hotel, pulito, con una camera grande e posizione proprio centrale.
Sarajevo era lì: dalla finestra un groviglio di palazzi deturpati, dietro di noi le vie del centro, e Ferhadija, che porta verso la chiesa, la moschea, la biblioteca e il dedalo di vie che è il mercato, e Bascarsija.
Sarajevo è viva: una città risvegliata, sospesa a metà tra il comunismo dell’est e una generazione annientata dalle granate e dai cecchini.
Ho camminato per le strade in cui tanti sono morti, tra tombe tutte bianche e datate 1993 (e 1994, e 1995).
Questo cercavo, e questo ho trovato a Sarajevo: la speranza annidiata come una gatta sul tetto, in mezzo al rumore di tante morti, ai segni incisi sui muri delle case, agli sguardi spenti di chi nel comunismo ci è nato e non conosce altra via.
Sarajevo è tanti ponti sul fiume, che portano verso una città non ancora ricostruita, verso palazzi abbandonati, muri scheggiati o crivellati di proiettili. Su uno di quei ponti è iniziata la seconda guerra mondiale, un altro è stato disegnato da Eiffel, un terzo mi è piaciuto perchè sembrava annodare gli strappi della guerra.
Ancora: i cani randagi che vagano per la città, ben nutriti e svegli. Alcuni; gli altri più mesti e delusi. Li avrei voluto salvare tutti (ma per portarli dove? Al sicuro in un canile?).
Sarajevo è una moschea bellissima, delicatamente scolpita; il palazzo della biblioteca ricostruito, tutto di vetro; file di negozi di gioielli come nei paesi arabi, venditori ambulanti di cappellini bulgari e giochi sovietici, e prelibatezze a portata di mano.
Il momento più bello: in un caffè, dove abbiamo anche pranzato, e bevuto un caffè turco e un the, giocando con Instagram; la tazzina aveva un disegno sul fondo, e il the era servito in un bicchiere di vetro. La gente fumava e viveva intorno a me, alla luce di un lampadario turco, e io ero di nuovo parte di un affresco: felice.
In un negozio ho comprato una spilla a forma di mosca e un bracciale con un drago; da una donna, un anello fatto di pelli, con una perlina rossa. Sarei restata a vagabondare nei negozi e tra la gente per ore.
Siamo partiti per Mostar nel pomeriggio del 31/12; la cittadina dista meno di 2 ore da Sarajevo. Era il crepuscolo quando siamo arrivati, lasciandoci alle spalle il cielo grigio di Sarajevo e la nebbia.
A Mostar, sul fiume Narenta, c’è un ponte moresco / Stari Most / del 1500 che è patrimonio dell’Unesco. Il ponte è stato abbattuto dalle forze croato-bosniache nel 1993 ed è stato ricostruito nel 2004. Ho visto un video del bombardamento del ponte, poi precipitato nel fiume: impossibile.
Marco l’ha visto nel 1998, quando la ricostruzione del ponte era iniziata ma non ancora conclusa.
Abbiamo trovato una pensione, chiamata Shangri-la, alle spalle di un enorme palazzo di pietra abbandonato, e camminato di notte per le vie deserte della vecchia città, ormai diventata un’attrazione turistica / e un ricettacolo di gatti bianchi-rossi-neri, come la Micia /.
Siamo riusciti ad infilarci in un ristorante aperto, e abbiamo festeggiato il 2013 sul ponte, insieme a tanti che si erano radunati lì per guardare i fuochi d’artificio sparati in lontanza.
La notte era piena di stelle, e il 1 gennaio lungo la costa della Croazia, c’erano quasi 15 gradi.