E’ una domenica di luglio calda, pigra. L’ultimo giorno per vedere il Floating Piers di Christo sul lago d’Iseo; per molti solo la prima domenica dei saldi.
Sono a casa con i miei bambini, aspetto che il sole conceda una tregua; Leonida si è addormentato sul lettone, Ayrton gioca di là con Marco. Tutto intorno una confusione di lego, macchinine, cuscini.
Io penso: sono felice. Che tradotto vuol dire: in questo piccolo mondo drappeggiato con tende arancioni – la voce di mio figlio in sottofondo, i miei gatti e il mio cane rigorosamente salvati dalla strada e ora ben pasciuti – io sono felice.
Qui mi rinchiudo fingendo che questi siano i confini del mondo: in me stessa, nella mia vita di privilegiata ma non troppo, di persona che ha potuto studiare, essere donna e viaggiare da sola, avere una sua casa, inventarsi un’azienda e anche fare due figli.
La vita di chi – per scelta – vive vicino alla famiglia, perchè i miei figli possano crescere raccontando dei nonni, come ho fatto io. Di chi vive in un paese bello e pieno di talento, un paese LIBERO, in cui donne e uomini possono andare a votare, in cui un neonato di 28 settimane può restare 80 giorni in ospedale avendo accesso alle migliori cure senza pagare 1 euro.
Eppure so che non è così, e che non posso più ignorare cosa c’è al di là di queste tende arancioni.
Quello che oggi accade – su tutti i piani, a tutti i livelli – ha in sè un messaggio comune, univoco, che abbiamo il dovere di ascoltare. Tutti. Ciascuno. Ognuno di noi, non solo gli altri. Perche davvero: gli altri siamo noi.
Il mondo ci urla che non possiamo continuare così. Il presente non è sostenibile, l’ecosistema imposto dall’uomo è al collasso. Su tutti i piani, ambientale e sociale.
Dobbiamo fare qualcosa, e subito (NOI, ciascuno, non gli altri!): è indispensabile perchè la nostra razza sopravviva senza trasformarsi in qualcosa di alienato.
Quello che sta succedendo è una guerra: mondiale. Dichiarata, anche se nessuno vuole ascoltare. Una guerra subdola, nascosta, senza confini. Combattuta ovunque, nei nostri paesi, nelle nostre vite di persone privilegiate ma non troppo.
Parigi, Bruxelles, Orlando, Istanbul, Dacca, Bagdad. Ovunque. Certo, sono vigliacchi, invasati. Persone con il vuoto dentro, che qualcuno ha interesse a finanziare, plagiare, esaltare. Questo non cambia la realtà: è una guerra che investe tutti noi, e le nostre vite costruite sull’illusione – anche la mia – di potersi ricavare un’isola felice, indifferente, un piccolo mondo dove le galline pascolano felici nel cortile dello zio e muoiono di vecchiaia.
Io penso che questa guerra nasca in primo luogo dall’indifferenza. A ciascuno di noi importa solo del proprio mondo, delle proprie sicurezze e comodità. Dei propri figli, che importa se a morire nel Mediterraneo (dove andiamo in vacanza) sono i figli degli altri? E – se anche ci importa – che possiamo fare noi, asserragliati nelle nostre vite, nei nostri uffici, nei riti di una quotidianità basata sull’apparire?
Pensiamo che tutto ciò che sta accadendo si limiti a condizionare le nostre decisioni di viaggio: niente Tunisia, niente Egitto, per carità, non sono sicuri.
Noi non vogliamo vedere.
Tendiamo a credere che ogni nostro gesto negativo, sia irrilevante, perdonato – quasi che non avessimo scelta. Invece la scelta l’abbiamo sempre. E ci raccontiamo che non sta a noi fare qualcosa, siamo impotenti. Qualcun altro deve agire.
Penso che si siano create disparità così macroscopiche che oggi – grazie all’interconnessione, alla globalizzazione – non possono più essere ignorate. E, soprattutto là dove l’ignoranza e la paura offrono terreno favorevole, le disparità generano invidia, rancore, voglia di sopraffazione, odio.
Penso che la stessa società che vede il denaro come unico mezzo e fine, e coltiva valori come l’apparenza e il piacere personale sia oggi insostenibile.
Penso che solo una rivoluzione che metta al centro di tutto la vita, come valore supremo, possa cambiare le cose e salvare il mondo.
Soprattutto, penso che ognuno di noi dovrebbe pensare a se stesso come parte di un tutto, e capire che quando un corpo è malato non muoiono solo le cellule tumorali, ma anche quelle sane.